Una rivisitazione del "Castello" di Kafka, dove il Castello è l’ex-manicomio di Trieste, quello di cui Franco Basaglia aprì le mura di confinamento. Un Castello vissuto e re-immaginato da uno dei suoi antichi ospiti, Pavel Berdon, che si è impadronito della cinepresa, e dal suo interno manda misteriose video-lettere al suo antico mentore, Giovanni Cioni. Come K l’agrimensore, Cioni cerca di decifrare i messaggi che gli arrivano da dentro il castello, fino a operare una sorta di trasmutamento rispetto al racconto kafkiano. Il Castello è il manicomio - oltre il manicomio, il Castello è il mondo, e noi siamo tutti abitanti di questa visione. Ognuno attende un messaggero che gli riveli infine chi è. Franco Basaglia aprì le mura del manicomio al mondo, ma forse non bastava; bisogna ancora aprire i confini dell’identità, in una vertigine dell’Altro…
Il film è, o sarebbe, un Castello rivisitato – ma qui il film stesso diventa il Castello, nel senso che entriamo nel film come il protagonista K. giunge al villaggio ai confini, convocato dal Castello silente. In questo tramutamento il film prende una sua dimensione che è quella dell’identità, dell’altro, della vertigine dell'altro. Un progetto ispirato al Castello ma non un adattamento. Una chiave di lettura. Una proposta di gioco, fatta alle persone coinvolte, che permette una ricerca su confini, identità, normalità – più che una metafora. Usare la finzione per andare oltre il confine normativo dello sguardo, che attribuisce categorie invece di guardare l’essere umano, sé stessi. Si usa dire che si fa un film di cinema del reale con i protagonisti. Qui è un superamento e un compimento del dispositivo. Faccio un film con Pavel in uno scambio creativo, scambio che è anche una sfida, un superamento.