La vita comincia prestissimo, la mattina, sull’isola di Gorgona, un remoto lenzuolo di terra a 19 miglia marittime da Livorno. Le stalle vengono riaperte, i trattori si mettono in movimento, le attività di tutti i giorni riprendono, tra i campi, la mungitura, la manutenzione dei fabbricati. In panetteria si stanno già sfornando i panini e le focacce che riforniscono lo spaccio, mentre un gregge di pecore costeggia i filari delle vigne per arrivare al pascolo...
Questi uomini affaccendati tra la macchia mediterranea e le stalle sono i detenuti della Casa di Reclusione di Gorgona, ultima colonia penale agricola ancora attiva in Europa. Un istituto che occupa l’intera isola, abitata esclusivamente da carcerati e da personale carcerario, con la sola eccezione di Luisa Citti, discendente di una delle famiglie che popolarono l’isola nell’Ottocento e unica residente rimasta oggi a Gorgona.
Per venire ammessi in questo carcere a cinque stelle servono precisi requisiti: nessun legame con la criminalità organizzata, niente problemi di tossicodipendenza e una pena definitiva sufficientemente lunga da permettere di costruire un percorso rieducativo. L’occhio della telecamera conduce lo spettatore in un’immersione senza veli nella vita di cinque detenuti, tra il lavoro quotidiano, il rapporto con gli educatori e il loro difficile percorso, dentro un mondo dove la bellezza avvolge, come un sudario, i delitti e il dolore degli uomini.
Da ragazzino mi trovavo su una piccola barca a vela durante una libecciata. La pala del timone si ruppe quando eravamo a poche miglia da Gorgona. Via radio chiedemmo l’autorizzazione di accedere al porticciolo per verificare l'avaria ed aspettare che il vento si calmasse. Eravamo l'unica barca nel porticciolo, trattandosi di un'isola carcere il cui accesso è severamente vietato alle imbarcazioni da diporto. Seduto nel pozzetto della barca guardavo i campi della valle antistante con questi puntini -- i detenuti 'liberi' dell'isola -- che con tanto di forche e pale, lavoravano la terra. Quella notte non riuscii a dormire. Temevo che uno di questi uomini potesse salire a bordo della nostra barchetta e ucciderci tutti.
Molti anni dopo, lessi un articolo sulla Gorgona "Carcere a Cinque Stelle". Ero curioso di tornare su quell'isola, da adulto... e da regista. Mi era rimasto quel vivido ricordo di paura e 'timore del detenuto'. L’idea di tornare su quell’isola per girare un documentario rappresentava per me un modo di confrontare e contraddire quella paura.
Al termine del primo sopralluogo di 10 giorni effettuato nel 2017, ho scoperto che su quest’isola remota esiste un ‘mondo parallelo’ unico e sorprendente. Non essendoci negozi, né ristoranti, né cellulari, né macchine, né motorini, è come se il tempo si fosse fermato e non avesse contaminato l’isola. Il mio lavoro è stato quello di osservare con la telecamera, con pazienza e perseveranza, il comportamento umano che avveniva di fronte a me. Il mio tentativo è stato quello di ‘portare lo spettatore sull’isola’ per realizzare un racconto corale, senza un inizio o una fine, ma a seguire il ciclico ripetersi di attività lavorative ‘primitive’, nei campi, nelle stalle, nel forno, sulle strade sterrate… Osservare innanzitutto il lavoro di questi uomini, che in questo contesto carcerario, assume un’importanza monumentale.