Un anno nel carcere di Bollate con un gruppo di ‘sex offenders’ e gli psicologi dell’Unità di Trattamento intensificato del CIPM, primo esperimento in Italia di prevenzione della recidiva per reati sessuali. Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo ed Enrique, insieme agli altri, sono i condannati che nel gergo carcerario classico vengono definiti come ‘infami’, e che l’istituzione ributta sulla strada dopo mesi o anni di isolamento.
Il film di Claudio Casazza ci permette di avvicinarci per un momento a questi uomini di diverse età ed esperienze, ‘mostri' agli occhi dei più, e lo fa con sensibilità e discrezione, mantenendo una distanza dal loro mondo disturbato, che trova espressione visiva nel permanente ‘fuori fuoco’ che li avvolge. Il fuori fuoco finisce per diventare un velo che protegge sia loro sia lo spettatore dalla crudezza dei loro atti e della pesante censura sociale a loro carico, e che permette di guardare più a fondo dentro di loro: fino alle premesse profonde dei loro atti, alla narrazione interna che li ha sostenuti e giustificati, agli alibi culturali che li hanno permessi. Il lavoro del gruppo di psicologi, soprattutto attraverso la parola, finisce così per accompagnarci con un sottile crescendo alla scoperta di qualcosa di profondo che forse preferiremmo evitare: il mostro è il nostro simile, nostro figlio, e possiamo essere noi, se certi meccanismi di empatia e di controllo sono saltati. Il lavoro di gruppo che viene mostrato nel film ci fa capire come molti stimoli intorno a noi ci spingono quotidianamente a vedere l’altro come un oggetto, un giocattolo, una preda, o una nostra appendice, e ad attribuire a noi stessi, perfino in buona fede, il ruolo di arbitri del loro destino.
‘Un altro me’ è un documentario d’osservazione, senza interviste né interventi esterni (nessuna musica extradiegetica, né commento in voce off). Il film si è costruito “abitando” i luoghi delle riprese, seguendo gli incontri e i gruppi di lavoro come “mosche sul muro”, senza mai interferire. Riprendendo i dialoghi tra i detenuti nelle pause, durante le attività ludiche, presenziando discretamente ai confronti individuali e di gruppo con gli psicologi.
Visivamente il film è un rigoroso alternarsi di fuochi e di “fuori fuoco”, utilizzato in primo luogo per trasmettere quel senso di “lontananza” da sé che i detenuti hanno verso se stessi, e soprattutto verso il reato che hanno commesso; ma la funzione del fuori fuoco è anche quella di proteggere lo spettatore da quel mondo disturbato e dalla crudezza di quegli atti.
Le testimonianze di alcune vittime hanno rappresentato il detonatore drammatico; è dal contrasto tra l’intensa emotività di questi momenti e il peso della ripetizione quotidiana, dello sforzo di dare un nome a sentimenti e pulsioni oscure, che nasce il senso poetico di un percorso di conoscenza che è anche, profondamente, espiazione.