Notte di capodanno 2008. Fuochi d'artificio su Sarajevo. Zoran, 28 anni, cammina per le strade della sua città, ripercorre un'infanzia di guerra, la “strage della fila del pane”, il disegno yugoslavo trasformatosi in “prigione dei popoli”, lui sarajevese e serbo “leale”, con un padre che ha combattuto nelle fila dell'esercito bosniaco contro gli assedianti.
Gli strascichi ideologici della guerra portano alla periferia, al quartiere di Lukavica nella Sarajevo “serba”, ad un bar che si chiama Sing Sing e poi a casa di Saša, giovane professore di storia arroccato insieme ai “suoi” a presidio dell'ideale nazionalista.
Dall'altra parte c'è Aziz, ex soldato dell'Armija bosniaca impiegato nella difesa di Srebrenica e fortunosamente scampato al massacro. Ora vive a Ilidža, sobborgo della capitale, ma il suo è un viaggio a ritroso, al luogo dove un tempo c'era il villaggio di sua madre, sulla Drina, il fiume che separa la Bosnia dalla Serbia, un fiume che è anch'esso una madre, ma irrimediabilmente tinto di sangue.
Un altro villaggio cancellato dalla guerra e ora di nuovo abitato e ricostruito. Sućeska, sulle montagne sopra Srebrenica. Mohamed è lo šumar, il guardaboschi. E' tornato a pascolare il suo gregge, a occuparsi del bosco e del taglio del legname, tutti i giorni percorre gli stessi boschi attraverso i quali è fuggito nei giorni della caduta di Srebrenica. L'11 Luglio 1995 i nazionalisti serbi comandati da Mladic entrano in città, migliaia di persone cercano rifugio a Potoćari presso la base dei caschi blu olandesi, i maschi sopra i dodici anni vengono separati dalle donne e sistematicamente trucidati nei giorni successivi. Qui Hajra ha visto per l'ultima volta suo marito, mentre i serbi lo strattonavano via. I suoi resti sono stati ritrovati in una fossa comune vicino a Zvornik. Del figlio Nino, che Hajra aveva salutato poche ore prima mentre prendeva la via dei boschi, non ha invece più saputo nulla. Ora la donna vive sola nella casa di Srebrenica, in cui ha voluto tornare.
A Tuzla è stato istituito l'ICMP (International Commission of Missing Persons), il personale lavora al recupero dei resti ancora ammassati nelle fosse comuni o dispersi nei boschi, alla ricomposizione dei corpi, al riconoscimento attraverso l'esame del DNA e infine alla restituzione alle famiglie. E' un processo difficile e doloroso, ma probabilmente necessario perché il tempo ricominci a scorrere.
L'intento del film non è quello di “parlare” della guerra o della Bosnia di ieri o di oggi, costruendo una cronaca o delineando una tesi, quanto piuttosto quello di porci adesso di fronte a uomini in carne e ossa, con i ritmi, i gesti, le emozioni e i pensieri che connotano il loro esistere.
Abbiamo sentito la necessità di lasciare ai discorsi il tempo perché si sviluppassero, perché si potesse ascoltare, vedere e soffermarsi su volti così veri, senza preoccuparci o prestabilire una durata.
Pensiamo che, nel caso di Rata neće biti! l'attenzione alle cose e alla loro complessità sia molto più importante di qualsiasi tesi precostituita. Senza negare la presenza di un'inevitabile mediazione, ciò che vogliamo è restituire la forza e la verità degli incontri fatti in Bosnia, evitando piegare il linguaggio alla costruzione di significati “altri”.
Ambientazione: (Bosnia Erzegovina) Srebrenica/Suceska/Tuzla/Sarajevo
Periodo delle riprese: ottobre 2007 - marzo 2008