In un prossimo, ma molto prossimo futuro chi vorrà farsi curare dovrà avere grandi possibilità economiche. Ma di converso, chi vorrà diventare medico dovrà, oltre una Laurea e un corso di specializzazione, frequentare un tirocinio di trenta giorni durante i quali soffrirà in prima persona tutti i dolori e le sofferenze riconducibili alla specialità prescelta. Questo però permetterà, a chi riesce a sopravvivere, a entrare in una cerchia di pochi eletti che avrà il dono della Cura. Luca Astolfi, il protagonista, un giovane venticinquenne ambizioso e poco propenso ad ascoltare il prossimo, dopo un ottimo corso di studi sceglie come tirocinio: Geriatria. Una specialità a detta del suo mentore poco invasiva, poco rischiosa e con tante possibilità di arricchirsi. Inizia cosi a fare il suo tirocinio, presso la Clinica Universitaria della sua città, entrando in un vero e proprio tunnel di orrore e sofferenza. Ma ne vale poi la pena?
Il progetto è il risultato di dodici anni di sofferenza. Un lungo lasso di tempo che ha permesso di scrivere una storia paradossale, sarcastica, cruda che ha però un’autenticità profonda. L’intento è quello di raccontare il disagio che il malato vive che va oltre la sofferenza a cui è già afflitto. L’idea del film parte da un paradosso che può essere preso in considerazione in due modi: uno slapstick che mette a soqquadro il politically correct, o un’attenta critica al mondo del “malato” visto come un oggetto e non come una persona che soffre e la cui sofferenza è messa in secondo piano. La fiction permette di varcare ogni limite: il paradosso usato nel film è lo strumento più che mai utile per strizzare l’occhio alla realtà ma allo stesso tempo permette di andare oltre senza giudizi o moralismi. Il paradosso è usato in questo caso per stimolare una riflessione sul tema del dolore e della situazione che i malati vivono quotidianamente. Non una denuncia, ma bensì un’analisi ferma che può e deve sviluppare un dibattito costruttivo.