Sulle rive di un torrente poco distante da un centro abitato, immersa nella natura incontaminata, una persona in età adolescenziale è lì perché ha deciso. Si attarda a contemplare minute tracce di vita in un ambiente apparentemente solitario. Ritrae un uccellino, che zompetta nei paraggi, su un blocco pieno di disegni precedenti, colorati e dettagliati, lasciando il ritratto incompiuto. Due bottigliette vuote di aranciata la fanno ripensare al momento dell'acquisto, al negoziante amichevole e scherzoso, ai soldi della cauzione stretti nelle sue mani. Lancia sassi nel fiume avvicinandosi carponi, testandone la profondità e stupendosi degli schizzi. L'ombra sulla sabbia del volo pigro dei mosconi attrae la sua attenzione. Si rialza, ha un capogiro, la terra sembra correre via controcorrente. Recuperato l'equilibrio, si riempie il grembo di pietre mentre avanza nel fiume, verso il punto nel quale l'acqua diventa verde.
Tra le diverse evidenze messe in risalto dal trauma della pandemia c'è quella per cui la nostra società sembra aver rimosso ogni relazione con la morte, per cui l'idea di questa non è più parte significante e naturale della vita stessa ma un vero tabù. A subire la pressione di un vitalismo performativo sono in particolar modo le persone in età adolescenziale, la cui sofferenza psicologica e sociale è un altro enorme rimosso collettivo. Il racconto di Fenoglio "L'acqua verde", con uno stile che riesce a catturare una condizione esistenziale senza confini temporali, descrive senza caratterizzare né il protagonista né l'atto che compie, lasciando entrambe fuori dal giudizio morale e trascinandoci nell'azione di un fatto che accade in sé e per sé, senza l'appiglio di una concatenazione di responsabilità a cui aggrappare la nostra logica. Costringe così a misurarsi con la realtà prima di poter esprimere qualsiasi valutazione su di essa, offrendoci l'occasione di guardare l'indicibile.