I Truzzi Broders sono nati con i punk, ma non sono mai stati punk. Da un punto di vista musicale erano la minoranza della minoranza. Una canzone senza finale è un documentario che, a partire dal materiale di archivio girato direttamente dalla band, ci permette di gettare uno sguardo sulla Torino degli anni Ottanta. Una città difficile che, nelle testimonianze di chi era ragazzo in quel periodo, appare come un luogo grigio, pesante, senza occasioni di svago e di socialità. Esplodeva il dramma della tossicodipendenza e iniziavano le prime casse integrazioni massive. Il 29 maggio 1982, una data storica, al Centro d’Incontro Vanchiglia, i gruppi punk hardcore della città si riunivano in un concerto con uno slogan emblematico: contro la disperazione urbana.
La storia dei Truzzi Broders infatti non è soltanto la storia di una band, è anche la storia di una città e di una scena musicale. Dentro ci si ritrova una Torino che scopre la crisi della sua anima industriale, il disagio dei quartieri di periferia e i ragazzi alla ricerca di una loro identità. È però anche una città vivace, dove si respira un’energia creativa che dà vita a una scena musicale punto di riferimento in tutta Italia. Sono anni fondamentali per la città, che passa da città deserto a città viva grazie all’impegno e alle idee di un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti. Un periodo importantissimo e poco raccontato che i ragazzi delle nuove generazioni ignorano.
A noi, che non l’abbiamo vissuto, piaceva l’idea di raccontarlo attraverso lo sguardo dei Truzzi Broders, forse perché, in un certo senso, è anche un po’ il nostro sguardo. I Truzzi Broders si lasciano influenzare dai punk soprattutto per l’autoproduzione, il do it yourself e la voglia di fare musica con i mezzi che si hanno. Musicalmente sono però diversi, propongono un rock grezzo cantato in italiano. E diverso è anche il loro atteggiamento: la rabbia c’è, ma è filtrata dall’ironia e dall’autoironia, si prendono poco sul serio e lo dimostrano nei testi e nelle esibizioni dal vivo. La critica del tempo li etichetta come demenziali, anche se a ben vedere di demenziale c’è poco in loro.
Amano raccontare la realtà di tutti i giorni, la vita dei ragazzi nei quartieri, i problemi della Torino di allora. Per usare le loro parole: «È per uscire vivi dai nostri quartieri che facciamo il rock, amico».