La zuppa del demonio” è il termine usato da Dino Buzzati nel commento a un documentario industriale del 1964, Il pianeta acciaio, per descrivere le lavorazioni nell’altoforno. Cinquant’anni dopo, quella definizione è una formidabile immagine per descrivere l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso.

È questo il tema del nostro film: l’idea positiva che per gran parte del Novecento (almeno fino alla crisi petrolifera del 1973-74) ha accompagnato lo sviluppo industriale e tecnologico. Perché è facile oggi inorridire davanti alle immagini (proprio de Il pianeta acciaio) che mostrano le ruspe fare piazza pulita degli olivi centenari per costruire il tubificio di Taranto che oggi porta il brand dell’ILVA: eppure per lungo tempo l’idea che la tecnica, il progresso, l’industrializzazione avrebbero reso il mondo migliore ha accompagnato soprattutto la mia generazione, quella nata durante il miracolo economico italiano.

Per raccontare questa eccentrica epopea abbiamo deciso di evitare commenti di storici, interviste ad esperti e didatticismi vari. Abbiamo preferito andare alla sorgente, usando i bellissimi materiali dell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea, dove sono raccolti cento anni di documentari industriali di tutte le più importanti aziende italiane. Abbiamo fatto parlare il film con le loro voci e le loro immagini, riservando al montaggio il compito di esprimere il nostro punto di vista di narratori. Quello che più ci interessava, non era svolgere un discorso storico, politico o sociologico: ma provare a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spencolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi in una mal riposta nostalgia: ma per capire come siamo arrivati dove stiamo ora.

Davide Ferrario

Conversazione con Davide Ferrario

Come ha approcciato l’idea di fare un film solo con materiale d’archivio?
In verità non è la prima volta che faccio un lavoro del genere. Nel 1992 realizzai una serie televisiva in sei puntate, American Supermarket, che fu venduta in tutto il mondo. Si trattava del montaggio di filmati educativi, spot, documentari, promozionali, film del governo USA degli anni ’40 e ’50: tutto senza una parola di commento, lasciando al montaggio e alla musica la costruzione del senso. Ma altre volte ho lavorato in modo originale con quello che oggi si definisce found footage. Sia in La strada di Levi che in Piazza Garibaldi il materiale d’archivio è usato agli antipodi rispetto ai documentari classici, dove di solito serve solo per illustrare quello che dice il commento parlato. Io, piuttosto,  sono affascinato dalla retorica del discorso filmico originale (intendo retorica in senso strettamente tecnico): mi piace pensare che si possa prendere quel “codice” e orientarlo per fargli dire qualcosa di nuovo. O meglio, di mio personale.

Non c’è il pericolo di una forzatura, in questo?
Cioè, se si rischia di stravolgere il senso originale? Beh, è esattamente quello che cerco. Ma non per far dire al materiale qualcosa di diverso dallo scopo con cui era stato fatto. Voglio che il mio intervento sia chiaro. Voglio proprio che sia questa “differenza” il senso del discorso. D’altra parte, sappiamo bene che ogni discorso sull’“oggettività” del documentario è pura ipocrisia.

Com’è nata l’idea del film?
È merito di Sergio Toffetti. Da anni insisteva perché dessi un’occhiata ai materiali dell’Archivio di Ivrea. Io nicchiavo, oppure ero occupato. Quando finalmente ho cominciato a vedere i film mi è subito venuta l’intuizione di raccontare la storia del progresso nel Novecento. O meglio, la storia dell’idea di progresso. Un’utopia, quello dello sviluppo senza limiti, che la mia generazione conosce bene perché è in quell’atmosfera che siamo cresciuti. Potevi essere di destra o di sinistra, ma il progresso tecnologico era un bene in sé. Infatti, la corsa allo spazio attirava sia i russi che gli americani. Fino a metà anni ’70 lo “sviluppo” è stato un dogma indiscutibile: poi è arrivata la prima crisi petrolifera, e contemporaneamente hanno preso piede le preoccupazioni ambientaliste. Toffetti ironizza sul fatto che si è passati dallo “sviluppo senza limiti” di quegli anni ai “limiti senza sviluppo” di oggi.

Il film sembra portare con sé un sentimento contradditorio. Da una parte c’è l’evidente scarto culturale tra la sfrenata positività di quei decenni e i tanti dubbi di oggi; dall’altra pare quasi che ci sia una nostalgia per quei tempi...
Lo dice molto bene Giorgio Bocca nella parte finale del film: “Le cose che oggi ci appaiono orribili allora ci sembravano bellissime; erano tempi irripetibili, e felici...”. È ovvio che quando oggi vedi gli olivi centenari abbattuti dalle ruspe per far posto al tubificio di Taranto scuoti la testa allibito, sapendo tutto quello che è venuto dopo. Ma l’entusiasmo di allora era sincero: ed è proprio quello che ho cercato di raccontare. Infatti nel film non c’è pressoché mai l’ironia che è invece la cifra di American Supermarket, che è sostanzialmente una satira del consumismo americano. No, davvero in  Italia c’è stato un “miracolo”: un miracolo fatto dalla combinazione di molti elementi, ma che ha coinvolto tutta una società. Certo oggi sarebbe facile ironizzare sul petrolchimico di Gela e sulle cattedrali industriali del sud: ma non dimentichiamo l’immagine della gente che dorme nella stessa stanza col cavallo prima dell’arrivo delle fabbriche. È chiaro che alla fine di questa storia c’è un fallimento: ma  per un lungo momento l’utopia è sembrata realizzarsi. È bellissimo, per esempio, quello che dice Ermanno Rea e che è citato nel film su cosa significava la fabbrica per i lavoratori meridionali.

In effetti, La zuppa del demonio è anche uno straordinario tributo al lavoro e ai lavoratori.

Esattamente. Certo i film erano prodotti dalle aziende e quindi la retorica è quella dell’epica imprenditoriale: ma si capisce benissimo che senza i lavoratori nulla sarebbe stato possibile. Credo che alcune sequenze siano davvero commoventi: penso alla costruzione delle linee elettriche nel dopoguerra; o ai film industriali di Ermanno Olmi. Ci sono ritratti di volti operai che sono straordinari nella loro semplicità e dignità; e struggenti nel loro entusiasmo. Perché le battaglie sindacali si facevano sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro: ma il lavoro in quanto tale, l’opera realizzata, apparteneva a tutti. E questo, per esempio, è un senso comunitario che l’impersonalità del lavoro moderno ha cancellato, credo per sempre.

Ha citato più volte il commento degli scrittori. Come ha lavorato in questo senso?
C’è stata fin dall’inizio l’idea di costruire una sorta di contro canto letterario alle immagini. Parole che confermassero un certo spirito dei tempi oppure se ne dissociassero, per creare una dialettica. Giorgio Mastrorocco, che era stato il mio compagno di viaggio in Piazza Garibaldi, si è incaricato di questa ricerca. Ha trovato una gran quantità di materiale e ovviamente nel film ne è finita solo una parte, ma molto rappresentativa. È anche interessante notare che molti intellettuali, che nel dibattito pubblico avevano posizioni critiche sull’industrialismo, non disdegnavano comunque di scrivere per i film industriali: Pasolini, ad esempio. Ma anche Sciascia. E interessantissimo è il caso di Franco Fortini, che porta nei suoi commenti su commissione uno stile inconfondibile.

Regia
Davide Ferrario
Soggetto
Sergio Toffetti
Sceneggiatura
Davide Ferrario, Giorgio Mastrorocco
Montaggio
Cristina Sardo
Musica originale
Fabio Barovero
Suono
Vito Martinelli con Zero dB
Altri credits

Elena Testa (responsabile ricerche archivio) || Archivio Nazionale Cinema d'Impresa (Materiale di repertorio). Marzia Milanesi - Comunicazione per il cinema e Gabriele Barcaro (Ufficio stampa).

Interpreti

- Autori dei testi citati: Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Prampolini, Ivo Pannaggi, Vinicio Paladini, Vladimir Majakovskij, Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Luigi Meneghello, Goffredo Parise, Luciano Bianciardi, Ermanno Olmi, Giorgio Bocca, Ottiero Ottieri, Ermanno Rea, Italo Calvino, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Paolo Volponi. - Registi di alcuni film presenti: Dino Risi, Ermanno Olmi, Alessandro Blasetti, Mario Camerini, Luca Comerio, Nelo Risi, Giuseppe Ferrara, Ferdinando Cerchio.

Organizzatore generale
Produzione esecutiva
Cristina Sardo
Produttore
Davide Ferrario, Francesca Bocca, Ladis Zanini
Produzione
Rossofuoco con Rai Cinema
Con la partecipazione dell'Archivio Nazionale Cinema d'Impresa e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e della Regione Piemonte (Piemonte Doc Film Fund - Fondo regionale per il documentario), Società Consortile OGR-CRT (Torino), Fondazione Guelpa (Ivrea).
Distribuzione
Microcinema s.p.a.
Voce narrante
Gianni Bissaca, Walter Leonardi
Vendite internazionali
Rai Com
Premi e festival

71° Mostra del cinema di Venezia - Fuori Concorso
Uscita nelle sale cinematografiche: giovedì 11 settembre 2014

Contatti
Cristina Sardo | Rossofuoco
Ultimo aggiornamento: 18 Novembre 2023