Il tema centrale del film è la riproduzione e la sopravvivenza del passato. A partire dal ricco materiale di repertorio storico degli anni ’70 sulle lotte operaie alla Fiat chiuse con la Marcia dei Quarantamila dell’ottobre 1980 (con estratti da film di Antonello Branca e Pietro Perotti), il film si pone come una riflessione sia su quella fondamentale memoria storica sia su quegli stessi film che ce la restituiscono – e in particolare sulla loro natura di oggetti degradati, in quanto, per l’appunto, oggetti del passato.
Nel corso di una serie di incontri col teorico del restauro Paolo Cherchi Usai, col Direttore del Museo Nazionale del Cinema Alberto Barbera e con l’archeologo Massimo Vidale il discorso viene allargato al campo della teoria del restauro: e nel contempo – in parallelo con le argomentazioni di ordine storico e teorico – un “film nel film” girato nei laboratori di restauro cinematografico dell’Eurolab Italia di Roma illustra le diverse fasi di decadimento fisico e fotochimico a cui è soggetta una pellicola, nonché le sofisticate tecniche grazie alle quali è possibile ripararla e rigenerarla tramite le più aggiornate e sofisticate tecnologie digitali, realizzando di fatto il duplice mito dell’immortalità e dell’eterna giovinezza del cinema.
"La domanda che mi sono posto è la seguente: con il contributo della moderna tecnologia digitale si può effettivamente recuperare non solo il contenuto – e dunque la lettera – ma anche il “respiro” – e dunque lo spirito originario – di una vecchia pellicola deteriorata o addirittura degradata? Come si augura lo storico del cinema Roberto Nepoti?
Un altro pericolo minaccia il cinema di realtà, sommandosi alla perdita di tanti titoli del passato: il deterioramento e la progressiva scomparsa dei documentari esistenti, alcuni dei quali importantissimi e già gravemente danneggiati. Ogni fotogramma di documentario che va perduto porta via con sé un pezzetto irrecuperabile della nostra memoria.
O viceversa non è proprio accettando senza riserve quella stessa vecchia pellicola nella sua naturale fatiscenza che è possibile rivelare la sua qualità e la sua “verità” più intima, quella “smemoratezza” invocata e celebrata a più riprese (da buona iconoclasta) dalla scrittrice e regista francese Marguerite Duras?
La mia smemoratezza è valida quanto la mia memoria. Io lavoro con queste rovine, con questi buchi nella memoria. Si dimentica il 90% delle cose della vita, si diventerebbe pazzi se si ricordasse tutto il tempo vissuto. Se ci si ricordasse di tutto, dei dolori, delle passioni, delle gioie, l’istante sbiancherebbe, non esiterebbe più. L’oblio è la vera memoria.
In altre parole: se è vero che è importante conservare la memoria (di una persona come di una famiglia, di una città come di una nazione, di un libro come di un film), non è altrettanto vero che il carattere più affascinante e misterioso della memoria, così come del cinema, è per l’appunto la loro fisiologica fragilità, o meglio – parafrasando un altro grande francese, André Bazin – la loro ontologica ambiguità?