“In mezzo a tanta violenza e sofferenza qualcosa avevo fatto. Solo questo. Questo, e niente di più.". Sono le parole di Pierantonio Costa, console italiano in Ruanda durante il genocidio, che mettendosi in gioco in prima persona e utilizzando i suoi soldi e le sue conoscenze, ha salvato la vita a circa duemila persone, occidentali e ruandesi, adulti e bambini. Ha viaggiato dentro e fuori il Paese, ha passato innumerevoli volte i posti blocco, con tutti gli inevitabili rischi per la sua vita. Si è fermato solo quando, passando per ancora una volta il confine tra Ruanda e Burundi, gli è stato consigliato vivamente di non tornare indietro, di restare a Bujumbura (capitale del Burundi): sapeva che quella frase significava che, in caso contrario, sarebbe stato ucciso. In quell’ultimo viaggio aveva salvato 375 bambini. Tutto inizia il 7 aprile del 1994 quando all’indomani dell’attentato che costerà la vita al presidente ruandese Juvenal Habyarimana, iniziano i massacri il cui bilancio conterà più di ottocentomila vittime, in maggioranza appartenenti all’etnia tusti. Tutto è durato circa cento giorni. Nel novembre dello stesso anno l’Onu istituirà il tribunale penale internazionale per il Rwanda.
Quindici anni dopo quei terribili giorni che hanno portato la morte a quasi un milione di persone, ripercorriamo la storia di quei momenti attraverso le parole di Pierantonio, di suo figlio e della sua famiglia. Una storia di coraggio e di giustizia, ritornando sui luoghi, e incontrando coloro che devono la vita ad un uomo che ha saputo essere coraggioso in mezzo al terrore. Cercheremo di capire, 15 anni dopo, il Rwanda e tutta la regione dei grandi laghi e come si è saputo potuto e dovuto superare quella tragedia con le testimonianze dei protagonisti di allora e di oggi e con l’aiuto di chi ha provato a capire per non dimenticare una tragedia che ha creato decine di migliaia di orfani e per raccontare un paese bello e straordinario nel cuore dell’Africa. Dice Pierantonio Costa: “Le cicatrici dei sopravvissuti hanno colpito l’immaginazione del mondo intero. Ma a Kigali non aiutano la memoria. Qui se porti addosso i segni del genocidio la gente pensa che tu sia stato semplicemente fortunato. Perché sei ancora vivo”
“Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi rwandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Rwanda e di viaggiare col buio. Aiutato dal figlio Olivier, Costa agisce di concerto con rappresentanti della Croce Rossa e di svariate Ong, e alla fine del genocidio avrà perso beni per oltre 3 milioni di dollari e salvato quasi 2000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio della Croce Rossa.
Verrà insignito della medaglia d’oro al valore civile per gli italiani portati in salvo e analoga onorificenza riceverà dal Belgio. Nei cento giorni del genocidio rwandese, Costa, che non è un missionario votato al sacrificio, ma un noto imprenditore con famiglia che si fa guidare dalla sua coscienza, decide di rischiare la sua vita, compiendo azioni straordinarie mettendo semplicemente a disposizione del prossimo la sua umanità e i suoi beni. “In mezzo a tanta violenza e sofferenza, qualcosa avevo fatto. Solo questo. Questo e niente di più”, ma col costante rammarico che si poteva fare di più. Il giornalista che ne ha raccolto la testimonianza, Luciano Scalettari, commenta così:” Secondo me, è un giusto, nel senso che danno a questo termine gli ebrei”. Risponde Costa:” Ho solo risposto alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare”.
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